“Molti anni fa, ho letto una frase che diceva che le persone non falliscono perché mirano troppo in alto e sbagliano, ma perché mirano troppo in basso e fanno centro.” (@Matteo Bussola – L’invenzione di noi due).
Non riesco a togliermi dalla testa tutti gli occhi smarriti e interrogativi che si siedono di volta in volta sulla mia poltroncina. Soprattutto se sono occhi di bambini, ragazzini. Occhi che brillano quando parli del più e del meno, ma occhi che si paralizzano, insieme al fiato, quando provi ad interrogarli su di sé.
Occhi che ti guardano disorientati, letteralmente. Persi dentro qualcosa che nella loro mente vaga alla ricerca di una risposta alla tua domanda, ma invano. Occhi che sono un misto fra una richiesta di aiuto, da un lato, per potersi spalancare e guardare e, dall’altro lato, la richiesta di “non andare oltre, non farmi domande, chè non so di cosa tu stia parlando. Io non so fare ad andare dentro di me, non sono capace, non so la strada e forse addirittura non sapevo nemmeno che ci fosse una strada che portasse dentro di me”.
Troppi bambini, troppi ragazzini mi guardano con quello sguardo, fra un lungo sospiro e l’altro, in una distesa di silenzi affannati e faticosi, in cui tocco con mano il peso di quel mutismo. Un macigno da sopportare, anche per me che sto dall’altra parte.
Ho capito perché mi pesa così tanto. Perché non riesco a non arrovellarmi incessantemente su come sciogliere quel ghiaccio e far breccia nei loro pensieri emotivi.
Perché quei ragazzini sono io. Quei ragazzini, quei bambini sono io 30 anni fa. Quando, come loro, avevo paura di scoprirmi, di vedermi, di conoscermi, di mettermi in gioco. Di sbattere la testa troppo forte e non essere capace di ricucirla più. Poi la vita mi ha detto IL CEFFONE, quello schiaffo improvviso e violentissimo, il primo, totalmente inaspettato, che mi ha buttato per terra, volente o nolente, e mi ha detto “Ora scegli: ti rimetti in piedi o resti lì?”.
Impreparata, spaventata, annientata dal male, ho avuto l’immensa fortuna di trovare al mio fianco un Professore-con-la-P-maiuscola, una roba ormai rarissima, che però mi ha cambiato la vita.
Mi ha detto: “cammina in questo male, respiralo tutto, ascolta quel che ti deve dire. Io sono qui, una ringhiera della scale a cui saprai sempre di poterti aggrappare quando non ti sentirai abbastanza forte per continuare a salire”. Quella persona, quella frase, quel messaggio sono rimasti stampati nella mia testa e sono stati la guida per me, da lì in avanti.
In quel percorso dentro quel male, ho scoperto me, le mie risorse, i miei dolori, le mie paure.
I rimpianti.
Gli errori che non volevo mai più ripetere. Ho scoperto quante lacrime ero in grado di piangere: infinite. Ma ho anche scoperto quanto facesse bene buttarle fuori. Ho scoperto la potenza di un “ti voglio bene” detto così, senza un motivo preciso, senza una ricorrenza precisa, ma solo perché mi sentivo di volerlo dire. Ho scoperto quanto è grande il mondo che abbiamo dentro e quanto sia da lì che può partire tutto il resto. Da lì dentro. E non sapevo che quel cammino, fatto nel 1995, sarebbe stato la migliore palestra per prepararmi all’ancor più bastardo 2001.
Non tollero di vedere quei ragazzini spenti e spaventati davanti a me, perché, come me, devono avere l’opportunità di scavarsi dentro, di sapere CHI sono davvero, quanto bagaglio hanno in se stessi. Quanto potenziale, quanti desideri, quanti limiti da migliorare o sogni da costruire. Devono incontrare nella loro vita “quel” Professore-con-la-P-maiuscola che dà una svolta ai loro mondi, che gli dà in mano una torcia per iniziare ad esplorarli. Mi piacerebbe essere io, quel Professore-anche-se-non-sono-un-Professore, ma chissà…mi basterebbe sapere che ognuno di loro lo avrà, che sia io o meno poco importa.
Ma ho capito una cosa: le mie energie saranno sempre focalizzate su di loro, su questi mondi confusi e delicati che devono aprirsi e fiorire, passando anche dagli inverni e della gelate, ma ogni volta pronti a rinnovarsi ancora più belli della stagione precedente. Se ho una missione nella vita, ho capito che è questa: ridare un significato a esistenze che stagnano nell’abitudine, nella non-consapevolezza, nella non-scelta.
Ho anche capito che i miei strumenti sono i libri, i film, le poesie. Che fanno molta più breccia, a volte, di tante parole raccontate. Quelli sono stati (e saranno sempre) continua fonte di riflessione e di crescita per me; non posso immaginarmi senza libri, perché da lì imparo mondi possibili, alternative di pensieri, punti di vista, occasioni. E come una buona scuola fa, anche una buona lettura o un buon film, aprono la mente, affinano l’introspezione, mettono in gioco. E non solo per i bambini.
Sarà una camminata lunga e costante, quella alla ricerca di sè, dentro il buio nelle menti di bimbi non abituati a guardarsi, dentro la confusione di ragazzini con occhi spaventati e curiosi o dentro le pance di adulti che voltandosi indietro non sanno spiegarsi perché sono dove sono oggi, ma sanno bene che ci stanno male.
Ma continuo a pensare che ne valga la pena, che sia l’unico modo possibile di vivere in consapevolezza e in pienezza. Senza quei maledetti rimpianti che tagliano il fiato e pesano sulle spalle, fino quasi a paralizzarti.
Grazie Prof. Sempre